il mio primo mer(d)aviglioso ritiro di Vipassana

Vipassana

il mio primo mer(d)aviglioso ritiro di vipassana

Se state pensando di partecipare al vostro primo ritiro di Vipassana, avete tutta la mia stima e il mio appoggio morale.
Un minuto di silenzio.
E anche un po’ della mia invidia (gioiosa si intende). In questo articolo vi racconterò la mia esperienza del tutto personale e, nel farlo, andrò contro ogni insegnamento ricevuto. In poche parole, dimostrerò ai più di non aver capito una fava e causerò un doppio infarto al mio maestro. Tuttavia… così facendo avrò più possibilità di farvi avvicinare a questa esperienza ed evitare che vi addormentiate alla prima battuta.

 la Vipassana questa strana creatura

Ma cominciamo dall’inizio e cioè dal motivo per cui un praticante di Vipassana serio si sentirebbe male già a questa prima frase, poiché dal punto di vista della Vipassana non esistono praticanti seri, o praticanti non seri, ma esistono solo praticanti. Il corollario di questo assioma è semplice: non esistono meditazioni giuste, o meditazioni sbagliate, tanto meno meditazioni belle, o meditazioni brutte. Esistono solo meditazioni. E così potremmo proseguire all’infinito: non esistono lavori belli, o brutti, esistono solo lavori…
Per farla breve, se dovessi raccontarvi il mio ritiro di Vipassana come farebbe una vera praticante di Vipassana, dovrei farlo così: solletico, udire, pressione, gustare, bruciore, pensiero, formicolio, pensiero, pensiero, pensiero… e così avanti per giorni interi, perché quando si sta nel momento presente, questo è tutto ciò che esiste.

mindfulness gravidanza

La prima cosa che possiamo quindi affermare è che per la Vipassana esiste solo questo momento qui, proprio così com’è. Tutto il resto è fuffa. Non c’è un mi piace, o un non mi piace, o un non lo so. C’è solo quello che c’è, così com’è. Capite la potenza di tutto questo? Significa penetrare a fondo il cuore dell’esperienza che si sta vivendo, per squarciare il velo illusorio sotto cui di solito lo mascheriamo. Significa portare un’intensa e ininterrotta presenza mentale su ogni processo fisico e mentale nel momento stesso in cui avviene. Significa stare con quello che c’è senza necessariamente giudicarlo, modificarlo, allontanarlo, avvicinarlo, desiderarlo, o rifiutarlo. Significa mettere il cuore nell’ascolto ed essere lì con tutti noi stessi.

Qui potete fare un bel respiro e prendervi un attimo di pausa per digerire il tutto.

Cosa succede quando siamo totalmente fusi con il momento presente? Succede una magia: diventiamo saggi. All’improvviso andiamo oltre l’illusione su cui avevamo costruito tutta la nostra realtà e comprendiamo la vera natura delle cose. In poche parole, smettiamo di soffrire e ci liberiamo di tutti i nostri difetti mentali.

Tanta roba eh?

vipassana

Vipassana significa visione profonda, una visione così profonda che ci porta a comprendere che tutta la realtà in cui viviamo ha solo tre caratteristiche: è impermanente, è inappagante, è vuota. I dolori passano e passano le gioie. Il fiume scorre al di là del nostro controllo e della nostra volontà. Noi possiamo solo stare sulla riva e osservare il suo corso. Possiamo solo essere testimoni di ciò che accade e fonderci con esso fino a dissolverci. In questo senso, l’oggetto della Vipassana diventa il processo stesso. Infatti, anche se in quel momento l’attenzione è su un punto come il respiro, la mente nota anche un sacco di altri oggetti che entrano nel campo: il vicino che russa, la puzza dei piedi di quello dietro, il freddo, gli uccellini che cantano, lo stomaco che brontola, i pensieri che turbinano… Nella Vipassana, che possiamo chiamare anche consapevolezza, rientra ogni cosa.

Quando osserviamo il flusso di ciò che è, entriamo in contatto con le sensazioni che possono essere piacevoli, spiacevoli o neutre. Sensazione, giusto per chiarire, significa tutto ciò che concerne i 6 oggetti sensoriali (5 li conoscete già, il sesto è la mente).

vipassana

Ma in cosa consiste di preciso la meditazione di Vipassana? Semplice: nel riportare continuamente la mente nel presente. Se il vostro vicino tossisce, ad esempio, la vostra mente schizza subito sul rumore, ma se avete abbastanza presenza mentale, allora osserverete solo il processo dell’udire e lascerete andare tutti i giudizi annessi e connessi a quell’esperienza. Se vi prude tantissimo il mignolino, la mente si precipiterà lì imprecando, mentre la consapevolezza noterà che c’è una sensazione corporea, senza emettere alcun giudizio.
Praticamente funziona come quando portate a spasso il cane: corre per inseguire una gallina e poi ritorna, a volte non torna e lo dovete chiamare, altre dovete proprio andare a prenderlo. Il cane ovviamente è la vostra mente.

Giusto per fare un po’ di chiarezza, la Vipassana è la famosa mindfulness con cui vi hanno rotto tutti i maroni negli ultimi dieci anni. È proprio dalla Vipassana infatti, che è nata la mindfulness, la versione occidentalizzata di insegnamenti millenari che vengono dall’oriente. Possiamo anche dire la versione un po’ edulcorata, perché a noi occidentali il riso in bianco scotto non fa proprio impazzire e nemmeno sedere per sedici ore consecutive sullo stesso cuscino di pula di riso (se ci va bene) o su due foglie di banano (se ci va male come al Buddha). E qui arriva la seconda parte di questo articolo, quella in cui racconto perché sarebbe stato meglio cominciare con un breve ritiro (mezza giornata) di mindfulness, piuttosto che con sette giorni di Vipassana, ma anche no. Anche no perché a me piacciono le sfide, anche no perché… lo scoprirete solo leggendo!

COME MI SONO PREPARATA AL MIO PRIMO MER(D)AVIGLIOSO RITIRO DI VIPASSANA

Quando decisi di vivere questa esperienza, avevo già iniziato a praticare la meditazione di concentrazione (samatha) da più di un anno. Oltre a questo, studiavo presso un istituto Buddista, quindi non è che fossi stata cresciuta a pane e mantra, ma non ero nemmeno del tutto digiuna.

Praticavo la meditazione di concentrazione sul respiro che mi aveva insegnato un amico di famiglia che aveva passato gli ultimi 13 anni della sua vita in ritiro. Avevo allungato sempre più i tempi della mia pratica quotidiana, fino ad arrivare a circa 2 ore e mezza al giorno, divise tra mattina e sera. Nei weekend mi concedevo a volte una bella botta di vita e arrivavo fino a 4 o 5 ore.

buoni propositi

Capite quindi, che quando decisi di partire per Pian dei Ciliegi (un centro ritiri in provincia di Piacenza) ero carica a bomba e priva di qualsiasi timore, anzi un po’ sbruffona del tipo: adesso svernicio in bellezza tutti quelli che “oddio stare due giorni senza parlare, io non ci riuscirei mai!”.

Con queste premesse (e altre ahimè di cui vi parlerò più avanti), feci il mio trionfale ingresso a Pian dei ciliegi e senza battere ciglio spensi il cellulare due minuti dopo il check-in, stendendomi sul letto con un sospiro in attesa di pregustare il momento in cui avrei raggiunto il samadhi.

RISPETTA E INTERIORIZZA I PRECETTI E NON SOLO

Sapete già come funziona un ritiro di Vipassana (serio)? Vi faccio un riassunto breve alla bignami: regolette.
Regolette da rispettare che loro chiamano precetti e che in teoria, più che regole, dovrebbero rappresentare un sostegno alla vostra pratica. Eccoli:

Prendo l’impegno di astenermi dall’uccidere gli esseri viventi

Prendo l’impegno di astenermi dal prendere ciò che non è dato

Prendo l’impegno di astenermi da una condotta non casta

Prendo l’impegno di astenermi dalla parola scorretta

Prendo l’impegno di astenermi dal prendere droghe o bevande che ottundono la mente.

Questi sono obbligatori per tutti, mentre invece questi che vi elenco ora sono a libera scelta:

Prendo l’impegno di astenermi dal prendere cibo dopo mezzogiorno

Prendo l’impegno di astenermi dal danzare, cantare, ascoltare musica, assistere a spettacoli; dall’usare profumi, unguenti e ghirlande e cose che abbelliscono e adornano la persona

Prendo l’impegno di astenermi dall’usare sedili (e letti) alti e lussuosi

Per fare un brevissimo ripasso: il primo è il classico non uccidere, che voi direte: “e chi mai si mette a uccidere qualcuno in un ritiro di Vipassana?” Ecco, dovete andare più a fondo perché la Vipassana è fonda: con qualcuno si intende anche la zanzara che vi ha tenuti svegli per le uniche sei ore di sonno che vi sono concesse.

Saltiamo alla condotta non casta: in ritiro non si fa l’amore nemmeno se siete in stanza da soli con vostro marito/moglie, tanto meno con l’amante.

vipassana

Astenervi dalla parola scorretta… Questo è un capitolone perché in ritiro si traduce in nobile silenzio, ciò significa che non potete parlare MAI con NESSUNO. E non solo non potete parlare MAI con NESSUNO ma non potete nemmeno spiegargli a gesti che volete impiccarvi, né chiedergli con dei mugugni se vi passa il sale. Il sale ve lo prendete da soli e punto. Inoltre, nei ritiri di Vipassana, non potete parlare nemmeno con gli occhi, quindi gli occhi è meglio se li tenete raso terra, o addirittura chiusi. Il fuori non esiste. Il fuori è il male. È tutto dentro di voi. Anche il vostro vicino di tappetino.

Astenervi dall’uso di droghe… anche qui direte: “e chi mai si drogherebbe in un ritiro di Vipassana?” Ecco non ne sarei tanto sicura… Conosco l’unico personaggio che vive nei paraggi del centro ritiri che mi ha raccontato di aver soccorso più d’una volta alcuni praticanti con un bel bicchiere di rosso.

Degli ultimi tre il più importante è: non mangiare niente di solido dopo mezzogiorno. Potete scegliere di farlo, oppure no, ma anche se scegliete di non rispettare questo precetto, non è che la sera potete mangiare il cervo in salmì con le patate al forno di vostra nonna. Per prima cosa dovete sostituire la parola “cena” con “spuntino”, poi dovete immaginarvelo così: una fetta di formaggio, un frutto, un tarallo e due carciofini. E infine, dovete sapere che queste 4 misere cibarie entreranno nel vostro stomaco alle cinque del pomeriggio per poi abbandonarlo al suo destino fino alle 7,30 di mattina.

Un’altra regola da rispettare riguarda gli orari. In un ritiro di Vipassana classico non è che potete meditare quando vi pare. Ci sono dei momenti in cui dovete meditare seduti sul cuscino e altri in cui praticherete la meditazione camminata. I pasti hanno orari precisi e così le (pochissime) ore di riposo. Di solito si comincia alle cinque di mattina e si finisce alle dieci di sera.

A pian dei ciliegi, inoltre, è richiesto che ognuno pratichi Karma Yoga, in poche parole che ogni giorno svolga un piccolo compito per il bene comune (svuotare la spazzatura, pulire i bagni, apparecchiare…).

vipassana

Veniamo alla nota più dolente per i più: niente cellulari! No, non potete tenerlo acceso nemmeno se il vostro cane ha il mal di pancia. C’è il telefono del centro, al massimo vi contattano lì. Infine, udite udite: non si può leggere niente! Quando dico niente, intendo niente. Nemmeno la bottiglia dell’acqua della San Francesco di Caslino al Piano con tutta l’analisi chimica biologica e batteriologica. Infatti ci sono delle brocche di vetro senza etichette.

il MIO PRIMO RITIRO DI VIPASSANA in autogestione

Quell’anno a pian dei ciliegi venne giù il diluvio universale. Faceva un freddo terribile per essere agosto e io non ero attrezzata come tutti gli altri partecipanti che avevano con sé morbide copertine di lana. Qualcuno cominciò a tossire, poi a snariciare, poi a starnutire e infine la tragedia: il monaco che avrebbe dovuto tenere il ritiro si ammalò. Ho scritto “alla fine” ma in realtà tutto questo accadde il primo giorno. Così, feci appena in tempo a essere guidata in una sola meditazione (la prima del primo giorno) e poi per tutto il resto del ritiro dovetti cavarmela completamente da sola. Capite che per una che non sapeva minimamente che cosa significasse Vipassana, questo non rappresentava un ostacolo, ma un disastro di proporzioni epiche.

Il mio corpo cominciò a mandarmi segnali d’allarme già al secondo giorno. Avevo le gambe perennemente addormentate e dolori lancinanti alla schiena. Non riuscivo più a stare in nessuna posizione e mi accorsi che il disco volante che mi ero portata dietro come cuscino non aveva nulla a che vedere con quei bei cuscini di pula di riso che usavano tutti. Sembravano così morbidi e comodi che cominciai a sognarmeli di notte.

Siccome di natura sono una che non molla, non solo mi impegnai a non saltare mai nemmeno un minuto di pratica, ma rispettai anche la prescrizione di non uscire dai cancelli del centro. Fu allora che cominciai ad avere le allucinazioni e mi sentii molto Gesù nel deserto del Sinai. Appollaiato sul confine tra il centro e la libertà c’era un piccolo diavoletto che mi incitava a fare un passo verso la salvezza. Ma io no, io non cedevo. Arrivavo fino al cancello e poi tornavo indietro. Ovviamente lo facevo camminando a rallentatore, mentre mi ripetevo mentalmente: piego, stendo, appoggio; piego, stendo, appoggio. E poi: formicolio, pressione, udire, peso, adesso scappo, sfregamento, adesso scappo, pulsione, piegare e via dicendo.

Il mio primo colloquio durò un minuto e cinquantasette secondi. Entrai in ritardo perché non osavo bussare, fui redarguita perché ero in ritardo, mi fu chiesto dove seguivo il respiro (se alle narici o al ventre), poi fui congedata con un cenno della testa prima che riuscissi a trovare il coraggio di fare una domanda. La sera, agli insegnamenti, il monaco si prese gioco di tutte quelle persone che iniziavano un ritiro di Vipassana perché gli era morto il gatto, o perché erano state lasciate dal moroso. Disse che la Vipassana non era una beauty farm e nemmeno una terapia psicologica e poi si fece una bella risatina.
Un minuto di silenzio.
Non mi era morto il gatto ma ero stata lasciata dal moroso dopo 13 anni di convivenza.

Più cercavo di concentrarmi sul respiro e più la mia mente si impennava come un cavallo imbizzarrito. Il pensiero del mio ex divenne la mia peggior condanna. Lo vedevo ovunque, infestava ogni secondo della mia giornata portandosi dietro un carico di emozioni tale da farmi perdere completamente il contatto con la realtà. In poche parole, stavo praticando l’avversione, l’ira, la disperazione, la gelosia, la tristezza e la frustrazione, insomma un po’ tutto fuorché la Vipassana. E tutto questo per colpa di quel monaco che non si era più visto e che non aveva minimamente spiegato cosa bisognava fare quando si era seduti sul cuscino.

rabbia

Così, il quarto giorno, mi preparai con largo anticipo al colloquio e quando finalmente fu il mio turno, gli feci due domande. La prima: “Perché ha deciso di diventare monaco e praticare la meditazione?” (tradotto in parole semplici: dammi un motivo per restare qui perché altrimenti faccio i bagagli e me ne vado); la seconda: “Perché, durante gli insegnamenti, ha detto che la concentrazione può diventare dannosa?”
Lui mi guardò per qualche istante battendo le palpebre, poi mi disse con un tono tutt’altro che amorevole, anzi parecchio irritato: “Il maestro sono io, le domande le faccio io. E comunque la concentrazione non è certo un tuo problema.” Mi fece segno di uscire e senza dire altro mi congedò.

Uscii dalla stanza umiliata come mai mi ero sentita in vita mia. Mi arrabbiai così tanto che marciai fuori dai cancelli come un panzer e raggiunsi la sommità della collina in pochi minuti. Mentre correvo divorata dall’ira, continuavo a pensare: “Ah, la concentrazione non è un mio problema? La concentrazione non è un mio problema? Adesso te la faccio vedere io se non è un mio problema!”. Se fino a pochi istanti prima del colloquio ero stata decisa a interrompere il ritiro e tornarmene a casa, in quel momento decisi che sarei rimasta lì a costo di morirne. Volevo dimostrargli che era solo un borioso maestro di Vipassana e che la concentrazione era sì un mio problema, perché sarei stata in grado di concentrarmi per ore pur di fargliela vedere.

emozioni afflittive
vipassana

Mentre mi accingevo a rientrare, incrociai un mio amico. Mi accorsi di lui solo perché ero così arrabbiata che non tenevo più nemmeno gli occhi raso terra. Lo vidi guardarsi attorno con aria furtiva e poi avvicinarsi con discrezione al mio orecchio per dirmi: “Io non ce la faccio più.” Aveva due occhi stralunati e l’espressione di uno che aveva bisogno immeditato di un TSO. “Come fai? Io sto impazzendo, non so se resisto.”
Lo fissai stupita. Fino a quel momento avevo pensato di essere l’unica incapace di sostenere quella specie di prova iniziatica per entrare nel corpo dei marines e invece… non mi vennero nemmeno le parole, sollevai le spalle e risposi solo: “Boh!” Perché non potevo certo spiegargli a gesti che stavo anch’io di merda ma avevo un conto in sospeso e sarei morta pur di non arrendermi.

la concentrazione è un mio problema

Da quel momento il mio ritiro subì una drammatica svolta. Mi sedetti sul cuscino con il solo fine di dimostrare a quel monaco che ero in grado di concentrarmi. Ovviamente la regola aurea della meditazione è non avere alcuna aspettativa, ma io ero talmente incazzata che ormai me ne infischiavo delle regole auree per raggiungere l’illuminazione. Cominciai a esercitare una presenza piena, costante, ferrea in ogni pratica e in ogni momento della giornata. Mi esercitai a ripescare la mia mente scalpitante ogni volta che fuggiva e le intimai di seguire il respiro a costo della morte.

vipassana

In modo del tutto inaspettato, un giorno mi ritrovai in silenzio. Fu una sensazione talmente assurda che all’inizio mi spaventai. All’improvviso non avevo più pensieri e il mio respiro si era fatto così sottile che non riuscivo quasi più a sentirlo. Poi qualcosa accadde e io cominciai a fluttuare in una sorta di beatitudine che mai avevo provato in vita mia.
No non raggiunsi il samadhi e no, non durò molto, ma fu un’esperienza che mi fece sentire così completa, perfetta e serena che mi dimenticai pure di essere arrabbiata con il monaco. Smisi di sedermi per dimostrargli che valevo qualcosa, smisi di provare rabbia, di pensare al mio ex, di controllare la disposizione delle ciabatte fuori dalla stanza di meditazione, ma soprattutto di desiderare d’andar via.

Quella sera, agli insegnamenti serali, il monaco raccontò come mai era diventato monaco e poi chiarì il concetto di concentrazione. In poche parole rispose a entrambe le mie domande, facendomi capire che il modo in cui mi aveva trattata non era stata una semplice reazione, ma un’azione precisa atta a farmi reagire per uscire dall’autocommiserazione.

corso di meditazione

Gli ultimi due giorni furono spaziali. Il corpo aveva smesso di farmi male e si era riempito di una serie di sensazioni fisiche piacevoli e molto intense. Riuscivo a lasciare andare i pensieri sullo sfondo e non avevo più bisogno di macinare chilometri per sentirmi a mio agio. Camminavo avanti e indietro in modo semplice e a ogni passo mi ripetevo “passo”, sapendo che ero proprio lì e da nessun’altra parte.

Quando la concentrazione divenne un mio problema, potei aprirmi anche alla Vipassana e cominciare a seguire il flusso della vita in tutte le sue forme. Almeno, questo era quanto avevo capito dai pochi insegnamenti che avevo ricevuto.

cintura nera di vipassana

In autostrada, avvinghiata al volante, mi guardavo attorno stralunata. I colori erano più intensi, le macchine velocissime, i sensi più affinati. Mi mancava solo il cappello e avrei potuto vincere l’oscar come miglior attrice non protagonista nella parte di una pensionata che viaggiava a 70 all’ora in prima corsia guardandosi attorno come se si trovasse in un universo parallelo.
Ero tranquilla, mi sentivo stabile e quando non reagii nemmeno di fronte a mia madre, capii che la Vipassana era veramente potente, un’attitudine che andava coltivata per tutta la vita. Fu così che mi comprai un cuscino nuovo e diventai una frequentatrice seriali di ritiri.