chi si accontenta gode

felicità mindfulness

chi si accontenta gode

Chi non è soddisfatto di ciò che ha non sarebbe soddisfatto neppure se avesse ciò che desidera.
(Socrate)

Chiudi gli occhi e ripeti mentalmente questa frase. E ora ti faccio un’unica domanda: ti risuona?
Se la risposta è sì, questo articolo è per te.

CHIUDI GLI OCCHI E GUARDATI DENTRO: SEI SODDISFATTO DELLA TUA VITA?

Uno stato d’animo condiviso abbastanza universalmente è la sensazione di sentirsi incompleti, non del tutto soddisfatti della propria vita. Questa sensazione non è sempre legata a un forte stato di crisi, o a un problema significativo. La maggior parte delle volte viene riportata da persone che conducono vite all’apparenza ricche e soddisfacenti. Sono persone come me e come te, che hanno una casa in cui vivere, legami famigliari, un buon lavoro, amicizie, interessi… E ciò nonostante sentono di non essere o aver fatto abbastanza e di non essere state in grado di realizzare quello che desideravano diventare.

Per fortuna non è sempre così. Esistono anche persone che sono totalmente soddisfatte della propria vita, connesse con sé stesse e felici di ciò che sono e che hanno. Queste persone emanano sicurezza, pacatezza e serenità. Hanno vite più o meno belle, più o meno ricche e qualsiasi cosa accada sono in grado di restare connesse con una serenità di base che permette loro di affrontare i problemi in modo calmo ed equilibrato.

A essere sincera, non ne ho incontrate molte, in realtà molto poche. Non mi riferisco infatti a persone che si trovano in momenti belli della propria vita perché magari hanno incontrato l’amore, trovato un lavoro stimolante, o vivono in qualche bel posto.
Parlo di persone che non hanno raggiunto chissà quali obiettivi eppure sono appagate, soddisfatte e serene in modo stabile, indipendentemente da ciò che posseggono o sono. Questo stato mentale è molto raro nella nostra società ipercivilizzata in cui la felicità è sempre legata al raggiungimento di un obiettivo affettivo, emotivo o sociale. In cui gli standard molto alti spingono le persone a voler sempre di più (da sé stesse e dagli altri) per mettere a tacere il senso di insicurezza che le fa soffrire.

Riuscire a mantenere quella serenità indipendentemente dal raggiungimento degli obiettivi sperati è sicuramente una preziosa conquista che pochissimi tra noi sono riusciti a conseguire. Come mai? Qual è l’ingrediente segreto capace di saziare queste persone in modo così pieno e duraturo?

SI PUÒ ESSERE FELICI ANCHE MANGIANDO UN PANINO

Oppure, spiegata con le parole più appropriate del grande Confucio: “Si può essere felici anche mangiando un cibo molto semplice, bevendo acqua pura e avendo come cuscino unicamente il proprio braccio ripiegato.”

Ecco il segreto. Tanto semplice e chiaro da parer una presa per i fondelli. Il punto è che non siamo più abituati alla semplicità. Vogliamo cose complicate, con tanti passaggi astrusi ed esercizi da mettere in pratica. Ormai anche il nostro dna è geneticamente progettato per guardare con sospetto tutto ciò che sembra troppo facile.

minimalismo

In realtà la frase di Confucio contiene un intero universo e per quanto possa apparire semplice e banale, non è per nulla scontata. La maggior parte di noi è ancora convinta che la felicità si trovi nel nuovo ristorante di nouvelle cuisine che ha aperto dietro l’angolo. O nel giro del mondo. O nella casa dei sogni che si affaccia sul mare. Anche se a livello intuitivo comprendiamo benissimo che tutte queste cose non possono darci una felicità stabile e duratura, passiamo la nostra vita ad accumularle serialmente, nell’illusione di poter trovare un giorno la pace.

Questo desiderio bulimico nasce da un disagio. Più è profondo il disagio e più avremo la pulsione ad accumulare, ma proprio come per i disturbi alimentari, non appena ci saremo accaparrati ciò che tanto desideravamo, proveremo un dolore e un disagio ancora più forte di prima e riprenderemo a “divorare” esperienze. In un ciclo senza fine.

Vivere in modo semplice significa andare contro questa tendenza e per farlo è necessario entrare in contatto con il disagio che è all’origine di questa compulsione a possedere (parlo anche di cose immateriali come relazioni, esperienze, viaggi, letture…). Per questo, a mio parere, il minimalismo che va tanto in voga ora non potrà mai dare i suoi frutti se non parte da un profondo lavoro sul sé.

L’esterno riflette sempre l’interno. Motivo per cui i veri minimalisti dell’anima si riconoscono da lontano. Sono persone lente e silenziose, che si tengono ai margini e operano scelte consapevoli, non certo dettate dalla moda del momento o dall’amore per il design. Sono persone in cammino, che hanno compreso che il vero lasciare andare è quello del cuore, non tanto quello esteriore.

In questo senso, credo che la semplicità sia una conseguenza, raramente una scelta. Volerci arrivare con uno sforzo di volontà è come pretendere di essere felici semplicemente facendo un selfie in cui si sorride. Non si può semplicemente decidere che da oggi si diventerà minimalisti e aprire l’armadio per buttar via la metà del guardaroba. La semplicità sorge da sola, come conseguenza di un lasciare andare profondo delle resistenze interiori che abbiamo. Per questo è un processo che richiede tempo. Non è che se diamo via tutti i nostri vestiti diventiamo San Francesco. Se però ci poniamo delle domande e scopriamo ciò che ci dà più gioia, forse un giorno per caso capiremo che tutti i nostri vestiti sono in eccesso e allora ci verrà spontaneo disfarcene. Non ci sarà una forzatura, ma un fluire spontaneo e semplice dal cuore. Allora il minimalismo potrà darci quella serenità cui tanto agogniamo, diversamente sarà solo una maschera esteriore.

UN VIAGGIO DI SOLA ANDATA

Se rifletto sul concetto di semplicità, non posso che pensare a mio padre. A fine anni ’60 comprò un biglietto di sola andata per il Brasile. Partì come missionario laico per lavorare insieme ai preti a Sao Louis ma quando arrivò si rese conto che i preti erano troppo ricchi e i poveri troppo lontani. Così si trasferì a Imperatriz, in Amazzonia.

Era partito con un cambio di vestiti, un libro e una chitarra. Parlava solo italiano e non aveva conoscenze particolari se non una forte abilità nel riparare ogni genere di cosa. Scelse una casa di palta ai confini con la foresta e ci visse per quasi dieci anni, quando fu costretto a fuggire in Perù, dove rimase per altri due anni.

minimalismo

In foresta viveva di niente. Diceva sempre che non occorre preoccuparsi perché le cose arrivano e infatti la gente del villaggio gli portava frutta e verdura, le donne gli riparavano i vestiti, i bambini cantavano insieme a lui. Fondò un’associazione, che esiste ancora oggi, in sostegno alle donne abbandonate e ai bambini. Non aveva grandi aspirazioni, l’associazione nacque in modo spontaneo e lui restò sempre ai margini, invitando i locali a impegnarsi in modo da poter procedere poi da soli, con le proprie gambe.

Non era per nulla interessato a possedere cose o mettersi in mostra. Aveva pochissimi beni e viveva una vita ritirata, molto lenta e silenziosa. Era minimalista nell’anima e godeva di cose come fare i pupazzi di neve, giocare con gli aquiloni e trasformare vecchie radici in capanne. Il suo minimalismo consisteva nell’andare molto piano, nell’ascoltare molto e parlare poco, nel possedere pochissimo (non aveva un conto in banca) e nel riciclare tutto ciò che gli capitava a tiro.

Non era certo un santo e la malattia che lo portò alla morte lo mise molto alla prova. Sicuramente però era in grado di trovare il bello in cose che di solito passavano inosservate. Questo secondo me è il vero spirito di una persona che ha fatto della semplicità il suo credo. Trovare la bellezza che è in ogni cosa, capace di appagare più di mille desideri raggiunti.

ȘAŅTOSA, L’APPAGAMENTO

L’appagamento fa parte dei niyama, le discipline personali che nello yoga di Patanjali conducono, insieme agli altri fattori, alla liberazione ultima o samadhi. L’appagamento è l’atteggiamento mentale dello yogin che è contento di ciò che ha e non sente la mancanza di nulla.

Il desiderio bulimico di accumulare esperienze, relazioni o oggetti ha origine in un profondo disagio che viviamo dentro di noi. Siamo eternamente insoddisfatti e nell’ossessione di raggiungere la felicità, ci aggrappiamo a oggetti esterni, illudendoci che possano darci un appagamento duraturo. In realtà, più accumuliamo e più diventiamo tristi, in un ciclo senza fine.

L’insegnamento di Epicuro sulla felicità è molto simile a quello orientale. Il filosofo greco diceva che per essere felici non è necessario possedere molte cose. Basta avere un tetto sulla testa, cibo semplice e una comunità di persone con cui vivere. Gli yogin dell’antichità e i monaci buddhisti vivevano proprio in questo modo. Non possedevano che la propria veste e la ciotola per l’elemosina, avevano abbandonato la vita mondana, la ricerca del successo, la famiglia ma erano in grado di sperimentare un agio e una libertà di gran lunga maggiore di quella che viviamo noi chiusi nelle nostre case full optional, o nei nostri profili social straripanti di followers.

Il piacere più grande e duraturo è quello che Epicuro definiva catastematico, legato al semplice fatto d’esistere. Secondo il filosofo esistevano poi i piaceri naturali ma non necessari (come ad esempio la sessualità) e quelli né naturali, né necessari (come la sete di potere, successo, ricchezza…).

Accorgersi di essere vivi e gioire di questo appaga più di mille raggiungimenti mondani. Lo sperimentiamo quando ci sediamo sul tappetino a praticare. Tutto ciò che abbiamo in quel momento è un cuscino su cui sedere eppure possiamo raggiungere una grande serenità, ben più profonda di quella che ci darebbe raggiungere correre dietro ai nostri desideri.

Il desiderio, infatti, non porta mai appagamento e serenità, ma un desiderio ancora più grande.

Il retto sforzo che ci invitano a fare i maestri è quello di fermarci ed esercitare una restrizione (gentile) nei confronti della compulsione ossessiva della nostra mente ad accumulare. Fermiamoci e osserviamo senza accontentare la nostra mente, né giudicarla per la sua debolezza. In questo modo il nostro potere mentale verrà accresciuto e una volta superata la difficoltà noi vivremo l’agio e la serenità del vuoto. In fondo non abbiamo bisogno di essere felici, lo siamo già! Dobbiamo solo riuscire a ricordarlo.

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